La Fao premia il Venezuela, che va a letto senza cena

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È difficile fare un paragone tra Hugo Chávez e Nicolás Maduro, ma il presidente-erede pare mettercela tutta. La stampa italiana ha giustamente voluto sottolineare la stravaganza dell’ultima idea chavista, quella di vietare per legge (tuttavia è ancora una proposta) i biberon e, di conseguenza, il latte “non alla spina”. Troppo capitalisti, dicono i bolivariani, fanno bene solo all’industria dei grandi brand e violano la legge della natura. Insomma, Dio ha creato il seno non per gli sfizi degli adulti ma per le necessità dei neonati. Tant’è che anche il defunto presidente si era scagliato contro la moda (in verità diffusissima anche tra le minorenni) di ricorrere alla chirurgia per avere un dono in più. Il disegno di legge prevede multe salate per utilizzatori, produttori e commercianti. Ma è una storia come tante, a quelle latitudini.

Meno importanza, però, nelle stesse ore è stata data alla prima visita ufficiale di Maduro in Italia. Ha incontrato Giorgio Napolitano ribadendo «l’amicizia storica tra i due paesi», ma soprattutto ha incontrato l’ad di Eni, Paolo Scaroni, facendosi accompagnare da Rafael Ramírez cioè il suo ministro per il Petrolio, mentre Emma Bonino riceveva il suo omologo Elias Jaua. Il presidente ha anche avuto un colloquio con il pontefice al quale ha voluto sottolineare la principale ragione della sua presenza a Roma: il Venezuela, ha detto, «è il paese che ha fatto di più al mondo contro la fame nell’ultima decade». Questo, a dirla tutta, è passato quasi inosservato, anche in un paese, il nostro, che in quelle terre caraibiche ha una “colonia” numerosa.

Maduro aveva un appuntamento alla Fao dove il Venezuela è stato consacrato come quel paese che ha combattuto e ridotto la fame del suo popolo. Insomma, un premio per aver raggiunto anzitempo gli onusiani obiettivi del Millennio. Alcuni dati confortano la decisione dell’agenzia specializzata delle Nazioni unite per agricoltura e alimentazione, ma è difficile non riproporre quanto, mesi addietro, veniva anticipato in queste pagine. Che, cioè, da alcuni mesi, il paese bolivariano è alle prese con una crisi alimentare senza precedenti. Lo segnalano gli attivisti dell’opposizione, ma anche gli elettori chavisti non riescono a nascondere la difficoltà di accaparrarsi anche beni di prima necessità. A nulla – dice scherzando qualcuno – è servito lo scambio con il Nicaragua dell’amico Ortega, petrolio in cambio di fagioli. E intanto, da mesi, si fanno code, c’è chi riesce a rubare qualcosa per necessità, chi ricorre alle classiche amicizie e chi arriva alle mani per una bistecca.

Anche la scarsità di farina e polli nei supermercati la si butta in politica: per i filogovernativi la responsabilità è da ricercare, come sempre, oltreconfine, tra quei poteri forti intenzionati a portare il Venezuela al collasso per mettere sotto accusa i tredici anni di politiche economiche che non hanno avuto successo. L’opposizione, al contrario, pubblica sulla rete video che dimostrano l’esistenza reale del problema che, in parte, ammette lo stesso Maduro. Secondo il presidente, però, si tratta di assenza di scorte sufficienti e che per tale ragione il governo ha deciso (è evidente nel video proposto) di ricorrere al razionamento. Si vedono tessere in perfetto stile cubano, quelle che solitamente circolano in parentesi belliche o di gravi emorragie produttive. È sul terreno dell’impossibilità ritenere che una merenda in meno è un fatto di politica internazionale. A spiegarlo è, tra i tanti antichavisti, il sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, che si rifà a principi basilari. Per effetto delle scelte di politica monetaria dell’esecutivo bolivariano mancano dollari per comprare le merci (il bolívar attuale è praticamente nulla) così come manca la fiducia di fornitori e investitori e l’inflazione reale ricorda i decenni neri del Latinoamerica. Tutto denunciato già dal mese di febbraio quando il governo minimizzava e copriva il tutto con sana propaganda. Fino a dover poi ammettere ciò che segnalavano i cittadini: manca anche la carta igienica. E il sogno dell’indipendenza economica è costretto ad arrossire anche in bagno: è dall’estero che – ha promesso il presidente – il Venezuela sta per ricevere cinquanta milioni di rotoli.

(Qui un video sul razionamento dei viveri, pubblicato su Facebook: https://www.facebook.com/photo.php?v=590278021006720)

@eugeniobalsamo

Un pontificato complesso per il continente delle ideologie

Per anni si è detto della necessità di un pontefice latinoamericano. Quella è un’area da ri-evangelizzare, ultimamente troppo affascinata dalle nuove chiese pentecostali. Dagli anni Novanta il cattolicesimo ha visto mettere in discussione la sua culla più importante, numericamente determinante per l’universalità dell’organizzazione: da una parte le adunanze evangeliche, dall’altra i movimenti politici e sociali di impronta marcatamente riformista. Attori che hanno saputo sfruttare la palese lontananza “pratica” delle gerarchie cattoliche dai bisogni di sempre delle collettività che, a un certo punto, hanno voluto mettere in discussione tutto, dalle ricette economiche alle scelte di politica estera. È noto che la Santa sede non ha mai gradito l’affermazione di governi “fuori dagli schemi” e proprio a Buenos Aires si consuma l’esempio più concreto.

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L’avversione di Jorge Mario Bergoglio all’amministrazione di Cristina Fernández è nota, come nota è l’antipatia dei kirchneristi più convinti verso l’ex arcivescovo della capitale e, in generale, verso le gerarchie di una chiesa che considera un pericolo le aperture della classe dirigente ai diritti civili. Un ritorno agli anni Settanta con il suo interrogativo sulla titolarità del progresso umano. Spetta al governo accompagnare l’essere umano nel cammino del suo riscatto sociale? E in che modo? O è ancora la chiesa a doversi occupare dell’individuo cercando di dividere l’aspetto spirituale da quello materiale? Ammesso che, dicono i progressisti, i due aspetti siano realmente scindibili.

Tra le accuse più recenti mosse alla chiesa cattolica c’è la sua – in parte innegabile – inclinazione al “lusso”, agli affari, alla politica nonché una provata incapacità di fare mea culpa sugli errori commessi al suo interno. E all’intromissione negli affari interni di un paese che, spinto da elezioni democratiche, ha deciso di cambiare rotta, o semplicemente di raggiungere lo stesso fine facendo ricorso a modalità diverse. Significativo è quel «diabolico» usato da Bergoglio per definire la decisione del governo argentino di concedere il matrimonio omosessuale, accogliendo istanze precise dell’opinione pubblica. Come sempre, diritti versus fede, una partita che non avrà mai fine.

L’Argentina, spinta dal suo tradizionale campanilismo, ha salutato con favore l’elezione di Francesco I dopo che avevano corso “il rischio” di vedere un brasiliano salire al soglio di Pietro. Ma, al tempo stesso, ha portato alla riflessione i più critici, quelli che ammettono e apprezzano la insolita semplicità dell’ex primate, ma non dimenticano il troppo silenzio della chiesa – e talvolta la collaborazione – con i regimi militari nella parentesi più buia, dal 1976 al 1983. Chiedendosi, dunque, se un uomo sfiorato da dubbi e da accuse sia degno di essere messo alla guida del Vaticano, soprattutto nel momento in cui ha bisogno di dar di sé un’immagine diversa. Ma la semplicità di Bergoglio farà i conti con la sua impostazione che è più che chiara: la non negoziabilità di alcuni principi è fuori discussione.

Una scelta, quella fatta in conclave, molto politica e geopolitica. Da dove ripartire se non da quelle terre più facilmente suggestionabili e inclini, per storia e tradizione, al rapporto con la chiesa. E non è difficile prevedere che tra le righe delle prossime encicliche ci saranno riferimenti alle “sbandate” prese dal latinoamerica che tanto hanno ricordato quei venti della Teologia della liberazione. Dal canto suo anche Barack Obama ha salutato con favore l’arrivo di un pontefice con queste caratteristiche. Del resto, la chiesa cattolica è stata un alleato fedele degli Stati Uniti quando c’era da tenere a bada, e soffocare, certe “bizzarrie” socio-politiche. Questa è una lettura esasperata di un evento storico che qualcuno, in fondo, immaginava diverso. Perché guardare all’America latina è pensare alle centinaia di sacerdoti di frontiera che hanno ben chiaro il “compromesso” tra principi e realtà. Che spesso è devastante, disarmante, specchio di un paradosso fatto di enormi ricchezze e potenzialità accompagnate dalla povertà cronica figlia di una distribuzione della ricchezza che ha costantemente incontrato ostacoli, uno fra tutti la agiatezza della chiesa temporale a due passi da favelas e villas miserias.

Un pontificato complesso, questo sarà quello caduto sulle spalle di Bergoglio. Rimarrà deluso chi ha inizialmente pensato a un’impostazione quasi terzomondista per la quale, in verità, non c’è più spazio. Politica ed economia sono cambiate. Il Brasile, esempio più evidente, con la sua marcia pragmatica, si trova ai vertici della comunità internazionale, mentre avanzano le economie di quei paesi subcontinentali che hanno imparato a dire la loro nel grande gioco globale. Con una fermezza, sostenuta dai rispettivi popoli (ed elettorati), che, almeno agli occhi degli osservatori, renderà più appassionante una sfida che vedrà ancora aggrapparsi a quelle bandiere ideologiche di un passato difficile da cancellare.

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Chávez, la fretta dei giudizi. Da vivo e da morto

La politica internazionale saluta una stella. Nel bene e nel male Hugo Chávez ha rappresentato tanto, soprattutto per quei venezuelani stanchi di schemi quasi mai mossi da equità. Delle risorse naturali, della ricchezza prodotta da un paese che per decenni è stato meta di migranti provenienti da Europa e Vicino oriente. Un paese che ha potuto dare garanzie di vita, e questo i meridionali italiani lo sanno bene. Ma che, alla fine, ha tolto: troppo radicale il presidente degli ultimi anni, fino a farsi bollare come caudillo, termine che chi ha un particolare amore per il latinoamerica sa che non ha in sé nulla di positivo.

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Quando chiacchieravo con l’ex ambasciatore venezuelano a Roma e la consigliera per i rapporti con i media spiegavo che per noi europei è stato sempre difficile comprendere pienamente il profilo di Hugo Chávez, perché qui si è abituati (e costretti) a distinguere tra destra e sinistra, tra una cosa e l’altra. E il presidente ci ha messo del suo parlando in maniera avventata di socialismo. Sia chiaro, nessuno sconto di pena sugli errori che ha commesso, cambiando fortemente il suo programma iniziale, che non era di sinistra e non era di destra. Perché qui c’è ancora da interrogarsi su cosa sia di destra e cosa di sinistra. Chi, per esempio, ha chiesto la nazionalizzazione dell’Ilva o del Monte dei Paschi di Siena è stato automaticamente collocato alle estreme: di solito se chiedi che lo Stato si riappropri di un insediamento industriale strategico e dove i poteri pubblici dimenticano che ci scappa quasi un morto al giorno sei un nemico dei mercati. Idem se pretendi che un istituto di credito, tanto aiutato da governo ed Europa, abbia almeno il buon gusto di non giocare a “mazzetto” con i soldi di correntisti e azionisti, oltre che con quelli del bazooka di Mario Draghi. Che, in fondo, è sempre denaro pubblico.

I mercati, appunto. Non è che Chávez – come lo abbiamo conosciuto nel passaggio da un secolo all’altro – avesse torto quando sottolineava che il petrolio è una risorsa nazionale e che era quindi giusto che fosse il popolo, attraverso i suoi rappresentanti, a decidere che farne e a che prezzo. Solo che quando cerchi di sottrarti a un consolidato dell’economia e della politica internazionale finisci inevitabilmente ai suoi margini. Succede, però, che se la Russia di Putin chiude i rubinetti del gas all’Ucraina che diventa filo occidentale o alla Bielorussia (comunque amica) perché restia a farsi risucchiare definitivamente nel comando economico del Cremlino, gli osservatori parlano di normalità geopolitica, di un paese che fonda la sua politica estera sugli idrocarburi e che galoppa verso la leadership regionale. Mosca, in fondo, è sempre uno dei nuovi centri della multipolarità necessaria. È vitale per l’Unione europea che facilmente sorvola sulla censura della stampa e sulla violenta repressione del dissenso politico.

Nelle ore della morte del presidente venezuelano la politica italiana – e, prima ancora, l’opinione pubblica di un paese frustrato da conti e riforme mai spiegate – si interroga sulla poca considerazione che Grillo e Casaleggio hanno della stampa. Non parlano con i giornali, sottolineano tutti. E invitano gli organi di informazione a ignorare la macchina e il popolo grillino. Bella lezione di civiltà di un Occidente libero, mentre proprio la nostra culla della democrazia, per anni, ha attaccato il potere venezuelano perché incline al bavaglio. Questo sì, è stato uno degli errori più gravi dell’establishment di Caracas, imperdonabili. E incomprensibile è stata la sua politica economica: la nazionalizzazione di una catena di supermercati, per esempio, non ha nulla di strategico, al pari di quella di un’impresa di movimentazione portuale. Diverso, ovviamente, il caso del petrolio visto che la tendenza degli ultimi tempi è quella del ritorno della risorsa nelle mani dello Stato. Un fatto non di mero controllo, ma per evitare che – vale per il Venezuela e per moltissimi altri paesi – una risorsa vitale cada nelle mani di mercati e speculazione, quelli che non ragionano sulla base delle necessità di un popolo. Certo, la gestione della Pdvsa non è un esempio di efficienza e trasparenza, ma il principio di base è quello giusto.

Luci e ombre, dunque. Un classico quando finisce l’era di un leader forte. La sua è stata una politica estera troppo “spinta” a intercettare paesi discussi, dall’Iran, alla Siria fino alla Bielorussia. Qui è franata l’idea di costruire quello che Chávez affermava, e cioè che otro modo es posible. Meglio sarebbe stato soffermarsi su un ruolo regionale, nell’intero continente americano, portando avanti battaglie storiche di un’America latina che è riuscita a rialzare la testa spiegando che i modelli imposti negli anni Ottanta e Novanta non erano adatti a quelle latitudini. Lo ha fatto Lula, che non era di destra; ci è riuscita Michelle Bachelet in un Cile che ha preferito la linea morbida di sinistra. E ci è riuscita anche l’Argentina di Néstor Kirchner venendo fuori dal disastro, un risultato in parte depresso dall’attuale presidente.

È un errore, insomma, continuare ad affermare che il mandatario venezuelano è stato il condottiero dell’intero Sudamerica e di una parte dell’America centrale: ogni paese ha calibrato la sua rivalsa politica sulle proprie potenzialità. Con un epilogo negativo per la Bolivia di Evo Morales, il chavista più allineato, e non sta andando meglio al Nicaragua di Daniel Ortega. Di sicuro, però, Chávez ha dato uno scossone concreto al quadrante latino dando man forte all’integrazione regionale che è sempre stata vittima di campanilismi e controversie di confine mai superate. Fallimentare la sua idea di Alleanza bolivariana per le Americhe da contrapporre a quella statunitense, trasversale, di un’area di libero commercio sulla quale c’è stato il dubbio concreto della supremazia di Washington. Non è certo merito del presidente venezuelano se i popoli latinoamericani, come sottolineano i più inquadrati a sinistra, hanno rialzato la testa, ma il suo contributo c’è stato. Poi, tutto dipende e dipenderà da classi dirigenti spesso incapaci e col vizietto dell’autoritarismo e della corruzione.

Milioni di persone hanno salutato Chávez scendendo in strada. Cosa normale nella politica sudamericana, ma che non deve far dimenticare che, in fondo, gran parte della popolazione è stata con lui. E che persino gli odiati osservatori elettorali made in Usa hanno, di volta in volta, certificato la bontà dei voti che gli hanno permesso di governare, o regnare, a seconda dei punti di vista. Il rispetto della volontà popolare, in fin dei conti, è un principio fondamentale, difficile da smentire. «Ora si apre un nuovo capitolo», ha dichiarato Barack Obama che non è quel «John Wayne» o quel «borracho» o «diablo» come Chávez usava definire George W. Bush, ma è pur sempre il capo della Casa bianca e, per convenzione, ostile alle istanze del chavismo. Il nuovo capitolo, però, lo apriranno i venezuelani col prossimo voto che potrà scegliere tra un chavismo senza Chávez – e quindi pieno di incognite e personalismi e correnti che non si faranno attendere – e il candidato che la piattaforma unitaria delle opposizioni sapranno proporre. Economia ferma, tasso di criminalità tra i più alti al mondo, corruzione e nepotismo a livelli consistenti, appiattimento sulla Cuba dei Castro: i principali nodi da sciogliere sono questi. Non pochi dopo tredici anni di promesse, partendo dal vantaggio di essere il quinto produttore mondiale di greggio.

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Venezuela, torna l’opposizione e il governo setaccia il web

Nel bel mezzo di un vertice afro-latinoamericano in Nigeria la presidente brasiliana è stata forse l’unica, tra i big del subcontinente, a parlare con franchezza delle condizioni di salute di Hugo Chávez. Dilma Rousseff ha dichiarato di aver ricevuto notizie dalle autorità venezuelane secondo le quali i problemi respiratori del leader di Caracas «sono peggiorate». Quasi a voler respingere la tesi del governo chavista ha poi aggiunto di aver parlato con il ministro degli Esteri venezuelano, Elías Jaua, che ha assicurato che la situazione sarebbe «bajo control». La versione ufficiale, comunque, è che l’evoluzione dell’intervento del 11 dicembre «non è stata favorevole» e che, dopo il suo ritorno in patria, Chávez prosegue il suo ciclo di terapia all’ospedale militare Carlos Arvelo.

Come stanno le cose lo si può comprendere dal grande attivismo di Nicolás Maduro, erede designato alla presidenza. È lui che l’opposizione considera lo sfidante di elezioni inevitabili. Un aggettivo, questo, desumibile anche dalle parole di Blanca Mármol, ex giudice del Tribunal supremo de justicia. Mármol è netta: un eventuale giuramento in ospedale sarebbe del tutto incostituzionale, nonostante il massimo organo giudiziario abbia accolto la tesi del parlamento circa la possibilità di posticipare il giuramento inizialmente previsto il 10 gennaio. Peraltro, aggiunge, è fuori discussione che la forma “segreta” dell’atto sarebbe contraria alla Carta. Interpretazione che spiega le ragioni della sua destituzione dalla corte a dicembre, insieme ad altri sei giudici non allineati alle esigenze del chavismo.

A considerare obbligato il ritorno alle urne è l’opposizione che ha già cominciato a farsi rivedere nelle piazze chiamando all’unità di tutti i partiti anti chavisti. Presenza forte quella di Antonio Ledezma, sindaco metropolitano della capitale che ha spiegato la linea delle opposizioni: indicare subito un candidato unico alla presidenza. Parole che fanno intendere che, probabilmente, non ci sarà ricorso alle primarie di coalizione. Il tempo sembra prezioso, come per il governo che, come ha spiegato il ministro dell’Interno,  Néstor Reverol, è già al lavoro sul web: la polizia scientifica setaccia la rete e i social network colpevoli, a suo dire, «di fomentare e organizzare la destabilizzazione del paese». A ottobre Henrique Capriles c’era andato vicino dimostrando che la non imbattibilità di Chávez. Questa volta, dunque, si gioca d’anticipo su entrambi i fronti, soprattutto considerando che il ritiro costretto del presidente, per implicita rinuncia o morte, è un fatto che gioca a favore dell’opposizione.

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Muto, depresso e immobile: Chávez non potrà tornare al potere

Due mesi dopo l’arrivo all’Avana i venezuelani sono ancora senza notizie sulle reali condizioni del presidente. Gli unici a poterlo incontrare sono i suoi uomini più stretti e la sua famiglia, mentre il resto del paese si chiede non cosa sarà il Venezuela di domani, ma cosa sia oggi, senza un mandatario in condizioni di governare. L’ultima visita gliel’hanno fatta il suo vice, Nicolás Maduro, e il ministro degli Esteri, Elías Jaua, per la firma di qualche decreto e qualche dettaglio da definire con il governo cubano. I venezuelani si sono dovuti accontentare di questa dichiarazione del canciller, via Twitter: «È stato un incontro profondamente umano, baci, abbracci e preghiere…», aggiungendo che Chávez «está en batalla». Poco, nulla su come se la passa il presidente.

Ci ha pensato la stampa spagnola a spiegarlo, rallegrando gli anti chavisti e preoccupando o molto probabilmente dando conferme ai sostenitori del socialismo del siglo XXI. Il quotidiano ABC traccia un quadro drammatico e definitivo della situazione: Hugo Chávez non ha più voce, le sue corde vocali sono state compromesse in modo irreparabile dagli ultimi interventi. Ma non è tutto perché viene descritto come «molto depresso» e impossibilitato a lasciare il letto di degenza. Detto diversamente: non è in grado di tornare a Caracas. ABC si sbilancia e informa che nei prossimi giorni il governo annuncerà l’incapacità del presidente e, come Costituzione impone, procedere alla dichiarazione di assenza permanente che porta a nuove elezioni.

È difficile che le cose vadano diversamente: l’ermetismo dell’amministrazione non può durare al lungo. Il popolo, difatti, si chiede, e si dà la risposta più naturale, logica, sulle ragioni che hanno portato una figura che ha invaso i media del paese per dodici anni ora a decidere di apparire di apparire solo su qualche tweet del Psuv o dei suoi ministri. Chávez è dunque alla fine, ma non siparla del chavismo, cioè di come potrà proseguire un’esperienza nata sotto auspici di storiche riforme sociali ed economiche e naufragata in una delle peggiori versioni dell’autoritarismo.

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Voli di stato per visitare Chávez. O prendere ordini dai Castro?

Familiari, militari, ministri e funzionari dello stato. I loro viaggi a Cuba per fare visita al convalescente Hugo Chávez sono costati già 1,5 milioni di dollari. Dal 10 dicembre scorso, giorno dell’ultimo ricovero del presidente, sono state totalizzate più di 400 ore di volo tra Caracas e L’Avana e, considerando la non enorme distanza tra Venezuela e Cuba, non è difficile calcolare il numero dei voli effettuati. Il tutto – si lamenta la debole ma speranzosa opposizione – a spese dello Stato, per giunta in una fase in cui anche l’economia venezuelana, nonostante il petrolio, è alle prese con la crisi mondiale, aggravata dalle fallimentari politiche economiche bolivariane.
Nel singolare scenario politico-istituzionale del paese caraibico, Chávez è pur sempre il presidente, poco importano il mancato giuramento e le condizioni di salute incompatibili con il mandato. E qundi, seguendo la logica della maggioranza chavista, i continui viaggi a Cuba hanno il fine di permettere a ministri e funzionari di ottenere direttive direttamente dal “comandante”, su come portare avanti gli affari correnti e, soprattutto, gestire la situazione di emergenza, perché tale è quella venezuelana. Vere o false che siano, negli ultimi giorni sono circolate voci di un presunto piano per eliminare Nicolás Maduro, numero due della dirigenza bolivariana. Incertezza ce n’è e anche tanta ed è, questo, il primo caso difficile per il socialismo venezuelano che ha cominciato a interrogarsi, non certo pubblicamente, sul suo futuro. Servono a questo i numerosi viaggi all’Avana? Del resto, chi lo dice che Chávez sia in condizioni di normalità psico-fisica?
La denuncia dell’opposizione, ancorché non adeguatamente provata, è precisa: quei viaggi nell’isola hanno anche altri scopi. Si ritiene che gli uomini della dirigenza venezuelana, impreparati a gestire una situazione dal carattere così eccezionale, chiedano e ricevano “suggerimenti” dai fratelli Castro, abituati da oltre mezzo secolo a prevenire qualsiasi forma di sovversione o disordine. Nel frattempo, però, mentre l’illustre ammalato è al sicuro tra medici cubani e strutture impiegate ad personam, gli ospedali venezuelani soffrono mancanza di equipaggiamento. E il pensiero torna a quell’1,5 milioni di dollari, che non sono una cifra enorme ma un sicuro sollievo per qualche nosocomio di periferia.
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Castro alla guida del Celac. Per diritti umani e democrazia…

Un passaporto, un permesso per due anni di permanenza all’estero ed è già democrazia. A cinque giorni dalla timida riforma voluta da Raúl Castro si torna a parlare di Cuba e di diritti umani. E il presidente diventa simbolo di difesa dei diritti fondamentali. Nell’isola dei barbudos è periodo di costrette aperture, segnatamente in termini di mercato e iniziativa privata. Barbieri ed estetiste calcolano gli effetti positivi delle nuove attività d’impresa: più reddito, spiegano, così si riesce almeno a triplicare le entrate mensili. Parlare, però, resta pressoché un sogno. È presto per dire che all’Avana qualcosa possa cambiare sul piano delle garanzie.

Eppure Castro sta per ricevere, dal presidente cileno Piñera, la guida della Celac, la Comunità degli Stati dell’America latina e Caraibi, un’organizzazione intergovernativa che, ereditando gli obiettivi del Gruppo di Rio, lavora per la protezione della democrazia e dei diritti umani. Tutto nella norma della presidenza “a giro”, simile al sistema del semestre europeo. Ma nel subcontinente americano è, inevitabilmente, polemica. Perché per regolamento uno dei leader più discussi dell’area si converte nel portavoce officiale di una regione da sempre alla ricerca di stabilità democratica, e sarà proprio l’attuale comandante cubano a dover stimolare, nei prossimi dodici mesi, negoziati politici e commerciali con i ventisette paesi Ue e gli altri blocchi regionali.

Oltre che singolare, il compito di Raúl Castro sarà poco agevole, almeno in termini di principio. Il suo governo è alle prese con una congiuntura politica agitata: detenzioni illegali e persecuzione politica costituiscono ancora il quotidiano, strascichi di una impostazione rivoluzionaria che cerca di sopravvivere. Gli arresti, incalzano gli attivisti di Hablemos Press, costituiscono abusi contro le libertà civili e culturali e continuano a essere aggressioni abituali ai diritti umani da parte delle autorità dell’isola. E forniscono dati: nell’ottobre del 2012 gli arresti per ragioni politiche sono stati 402 che si vanno a sommare ai 4.140 dei mesi precedenti, a danno soprattutto del movimento delle Dame in bianco e dell’Unione patriottica cubana.

Un incarico discutibile, dunque, anche considerando che Cuba e il Venezuela di Hugo Chávez sono gli unici due paesi che non permettono l’ingresso dei funzionari della Commissione interamericana del diritti umani dell’Organizzazione degli Stati americani. La stessa che, in virtù del predominio di Washington nel sodalizio, ha sospeso per decenni lo status di membro dell’Avana per palese contrasto del suo regime con l’atto costitutivo. Motivi politici, allora, nella decisione della Celac considerando che i principali leader regionali lavorano da anni per ridare a Cuba cittadinanza piena nelle piattaforme politico-diplomatiche del continente. Quasi per fare un torto all’America o per stimolarla ad ammorbidire la sua politica estera verso governi “ribelli” del centro-sud, ma risparmiando sforzi nell’accompagnare il paese caraibico verso standard democratici. Con tutte le eccezioni possibili, visto che l’uscente conservatore Sebastián Piñera, non ha esitato a scagliare la polizia contro gli studenti scesi in piazza per dire no a una riforma scolastica e universitaria un po’ alla Margaret Thatcher. Tanto per restare in tema di cosa è destra e cosa è sinistra in un continente che cerca schemi diversi.

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Venezuela, cercasi presidente. E anche prodotti alimentari…

Se c’è zucchero manca la farina, se c’è la farina manca il pollo e talvolta è necessario ricorrere a reti amiche per sapere dove e come acquistare un prodotto, in alcuni casi anche di prima necessità. Scenario da restrizioni belliche in un paese dove non c’è guerra ma disordine sociale e dove si rischia anche il disordine politico. È in questo clima, e con queste difficoltà, che i venezuelani attendono di conoscere il destino del paese, tutto nelle mani dell’entourage di Hugo Chávez, ancora “confinato” all’Avana dopo l’ennesimo intervento col quale cerca di battere il cancro. Il presidente rieletto, è noto, non ha giurato nella data prestabilita, il 10 gennaio, supportato dalla maggioranza del parlamento nazionale che gli ha concesso «tutto il tempo di cui ha bisogno» per riprendersi.

Fatto sta che all’aumento della criminalità e al quasi isolamento di Caracas, per effetto di una politica estera che ha intercettato prevalentemente governi a vocazione anti americana, si aggiunge una delle note più disonorevoli: la difficoltà di reperire prodotti alimentari. Resa ancora più difficilmente giustificabile per uno dei principali paesi produttori di petrolio, lo stesso grazie al quale Chávez aveva promesso una diversa distribuzione della ricchezza.

Il basso livello di scorte non è certo una conseguenza diretta dell’assenza prolungata dell’uomo forte di Miraflores, ma i venezuelani si chiedono chi, in un momento così delicato, sia legittimato ad adottare quelle misure economiche necessarie, come per esempio una modifica del tasso di cambio e il controllo sui prezzi delle merci. Schemi occidentali di governo non darebbero neanche questa occasione di riflessione, ma con un chavismo in crisi farsi venire questo dubbio appare giustificato. Prendere decisioni in supplenza, in un sistema di potere come quello creato dall’ex paracadutista, sarebbe un azzardo, soprattutto ora che nel Partito socialista venezuelano già l’idea di gestire una successione – al di là della decisione di Chávez di investire il suo vice Nicolás Maduro – ha aperto il confronto innescando la competizione sul chi è più chavista dell’altro.

Al di là dei difetti di amministrazione gli analisti attribuiscono le carenze di derrate alimentari al fallimento di un modello economico basato sui rigidi controlli monetari e dei prezzi, così come nell’indebolimento dell’apparato produttivo privato dopo anni di espropri e nazionalizzazioni, tra i punti forti della politica economica boliviariana. Dal 2003, difatti, acquisto e vendita legale dei dollari statunitensi è nelle mani dello Stato e i quattro adeguamenti del tasso di cambio realizzati da allora sono stati decisi e annunciati direttamente dal presidente rientrando, decisioni come questa, nella sua impostazione storica che è la promessa totale autonomia da Washington e dagli organismi finanziari multilaterali.

Nel pratico ciò che i venezuelani di media avvedutezza contestano al governo è il sistema del controllo dei prezzi voluto dall’esecutivo su un centinaio di beni e servizi, idea tutta socialista e che non stimola il libero mercato che, peraltro, ultimamente avverte il peso delle nazionalizzazioni avviate nel 2007. Di qui una caduta della produzione interna aumentando di conseguenza la necessità di ricorso alle importazioni. E neanche il petrolio è sufficiente a “pareggiare”, anche perché troppo spesso diventa uno strumento di politica estera. Crudo a Cuba e Nicaragua, per esempio, in cambio di fagioli. Ma i venezuelani, ormai, hanno bisogno di altro.

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E anche il ministro Terzi scopre l’America latina

Scelgo un argomento particolare come post di apertura del blog che vuole essere un esempio di quanto spiegato nel “chi siamo”. L’Italia è tra quei paesi che, almeno a livello di classe politica, non ha mai mostrato particolare interesse ai moti di cambiamento che stanno interessando, e impegnano ancora, la maggior parte delle società latinoamericane. Questo è accaduto nonostante in quelle terre ci siano centinaia di migliaia di italiani residenti e qualche milione di discendenti. E anche quasi ignorando quella complementarietà produttiva tra quel mondo e il nostro, in modo particolare tra Italia, Argentina e Brasile.

Il nostro ministro degli Esteri, Giulio Terzi, pochi giorni fa, si è fatto scappare che l’America latina è un subcontinente ricco di opportunità per l’Italia e l’Unione europea in un’ottica di crescita, attivando una collaborazione sul modello delle piccole e medie imprese, dell’innovazione e delle smart city. Ma non è una novità e non dovrebbe esserlo neanche per un ministro e diplomatico di grido più disponibile a soffermare la sua attenzione sul mondo arabo, Medioriente in particolare, e sulle relazioni tra Roma e Washington. Una questione di inclinazione politica?

Non servono grandi sforzi per rendersi conto che nel panorama politico i partiti di centrosinistra sono quelli che tradizionalmente hanno rapporti privilegiati con il latinoamerica. Un po’ per quei sogni rivoluzionari dei vecchi dirigenti Pci sempre a caccia di un caso di rivoluzione da imitare, ma anche perché quelli in connessione più o meno stabile con le forze socialiste e socialdemocratiche di Centro e Sudamerica. Del centrodestra degli ultimi tempi si ricorderà un quasi plenipotenziario incaricato di fomentare nuove occasioni di dialogo con i governi di quel quadrante.

Sul campo, però, quello sociale e culturale, continuano a muoversi quegli attori invisibili, in testa gli addetti alla cooperazione allo sviluppo e qualche forma di solidarietà di natura religiosa. Oltre alle imprese, quelle che stanno sempre un passo avanti, ammesso che dietro non ci siano i suggeritori politici. Che non guasta in un sistema paese, ma oltre alla cooperazione economico-commerciale quando si riprende a parlare di democrazia e diritti umani? Perché il ministro parla del subcontinente come opportunità per la crescita. Qualcosa di cui approfittare. Poi dice che quelli si buttano a sinistra…

@eugeniobalsamo